martedì, Ottobre 15, 2024
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Claudio Forti: «La mia vita è iniziata a quarant’anni»

Claudio Forti ha l’aspetto di un leone e una fierezza nello sguardo mai sfuggente che gli conferisce sicurezza nei modi. Un meticoloso ricercatore di nevrosi, uno studioso di patologie emotive, per poterne scrivere e parlare, oltre che un attento scrutatore dell’animo umano ma non per giudicarlo semmai per comprenderlo, per vivisezionare il dramma dell’individuo spesso solo e indifeso proprio contro il suo più implacabile nemico ovvero sé stesso. Claudio Forti è un esempio di lucida perseveranza, un artista che sa essere una voce fuori dal coro.
Drammaturgo, scrittore, batterista. Quando hai scoperto di essere tutto questo?
«Ho sempre avuto la passione di scrivere. A tredici anni ero già corrispondente sportivo da Marsala per il quotidiano “Il Tempo”. Mio zio, che non si intendeva di calcio, ricevette da questo giornale la proposta di scrivere proprio di questo argomento e lui, sapendo già quanto io amassi la scrittura, propose a me di farlo. Mi misero alla prova e andò bene e scrissi di calcio per cinque anni sia per “Il Tempo che per l’Agenzia ANSA».
Appassionato di scrittura dunque, ma anche, immagino di lettura. E’ una condicio sine qua non per poter essere uno scrittore?
«Ho sempre letto fin dall’infanzia. Ero uno di quei ragazzini che, in Estate, contrariamente all’andazzo dei suoi coetanei, passava il tempo libero leggendo una pila di libri. Per scrivere occorre aver letto molto, è ovvio».
Cosa ti piaceva leggere?
«Leggevo di tutto, dalla narrativa ai gialli, ma in modo particolare leggevo “i casi clinici di Freud”, e già a quindici anni li avevo letti quasi tutti. Fin da allora mi interessavano le nevrosi, il male di vivere. Era un modo per scandagliare dentro l’individuo, per comprendere meglio il comportamento. Lo scrittore per mettere su carta dei pensieri diciamo così borderline, deve conoscere esattamente, per essere credibile, ciò di cui sta parlando. I casi clinici più disperati sono quelli che riguardano l’ossessivo compulsivo perché ha un comportamento insistente. Specie nei sentimenti, vuole che le cose vadano per il verso che lui ha immaginato, come ha previsto.
Non accetta la non realizzazione dei propri progetti, non si rassegna. Controlla tutto e non accetta il cambiamento, la digressione. Vuole la stabilità, mentre la vita è instabile».
Come ti definiresti con un aggettivo?
«Io sono un rosicone. Ho un amore incondizionato per la giustizia e tutto quello che io non trovo giusto mi fa arrabbiare. Le ingiustizie sono le cose che in assoluto mi innervosiscono di più. E’ sempre stata una mia caratteristica e assistere alle ingiustizie non mi lascia indifferente».
A quale tipo di ingiustizia ti riferisci?
«A tutte, sia quelle sociali che quelle penali. Siamo circondati dalle ingiustizie e questo mi causa disagio. Non riesco a tacere dinnanzi alle ingiustizie. Sono intollerante alle ingiustizie, non le sopporto. La classe politica è immersa nelle ingiustizia, anzi le alimenta. Detesto le cose date come verità assoluta contro cui non si può protestare. Non mi piace fare passi indietro. Ho cambiato vita questo sì, ma non mi piace retrocedere».
Quando hai cambiato vita e perché?
«Nel ’99 è avvenuta la svolta. Avevo un laboratorio di analisi nel quale lavoravo da quindici anni. Sono laureato in ematologia ma la mia vita è sempre stata il teatro. Per questo ho lasciato il lavoro che mi dava certezze economiche e ho intrapreso una carriera che almeno inizialmente dava poche soddisfazioni economiche e poche certezze. Io ho fatto il salto nella penombra per così dire. Sarebbe eccessivo dire nel buio. In effetti avevo già capito che i miei lavori piacevano, che il pubblico li gradiva. Ho creduto in questa cambiamento e ho fatto scelte difficili».
Qual è il vero problema per i teatri di oggi?
«In questo periodo di crisi il vero problema per il teatro è che per risparmiare, i testi se li scrivono gli attori stessi. Le grosse compagnie che facevano prima grandi tournè sono ridotte al lumicino. Non ci sono più i fondi che c’erano prima e se da un lato è giusto perché c’erano gli eccessi, da un altro lato penso che questo penalizzi le piccole compagnie che mettono in scena bei lavori. Penso a quando Ronconi faceva il bello e il cattivo tempo e prendeva cifre spaventose, così come Zeffirelli, e toglievano di fatto, alle piccole compagnie che non avevano il grosso nome da sbandierare, ogni possibilità di riuscita. Il teatro italiano ha sempre contato su questo. Era il regista il vero richiamo per il pubblico. Era questo il biglietto da visita. Nei tempi passati si sono spesi molti soldi per le produzioni liriche, Ci sono teatri che rischiano di chiudere proprio perché sono stati presi troppi soldi per fare allestimenti che costavano tantissimo senza favorire quella che sarebbe stata l’unica vera soluzione ovvero favorire la circuitazione delle produzioni l’unico modo per utilizzare un allestimento per anni nei vari teatri».
Nella tua scelta chi ti ha sostenuto?
«La mia ex moglie mi ha aiutato e mi ha incoraggiato ma da lei mi sono separato circa sette anni fa. Quando ho cambiato la mia vita ero ancora sposato. Non ho figli. Non ho fiducia in questa società. Forse sono un pessimista ma mi sarei sentito un egoista a mettere al mondo dei figli. Non hanno speranza questi giovani, non sanno cosa fare».
Ci sono mai stati tempi “buoni per mettere al mondo dei figli? L’umanità è sempre stata in crisi.
«Adesso però il periodo storico che stiamo vivendo non permette alcun ascensore sociale. I giovani sono costretti a emigrare, a cercare altrove la propria realizzazione. Questa è una delle grandi ingiustizie. I ventenni non hanno speranze e per questo diminuisce l’attenzione verso ciò che li circonda. Uno Stato di diritto deve dare tutte le possibilità al cittadino per potere riuscire. Nessuno dovrebbe essere abbandonato. La mancanza di lavoro non dovrebbe ritorcersi contro chi non ce l’ha. Chi non ha un lavoro di solito si sente un fallito e invece il fallito è lo Stato che non è in grado di creare le condizioni ottimali per creare lavoro. La causa di tutto è la mancanza di meritocrazia e questo dipende da una cattiva politica dalla non volontà o incapacità di gestire i talenti e una pessima gestione dei capitali umani».
Credo che sia sempre stato così. Tautologia all’infinito, coazione a ripetere della Storia.
«Siamo vittime di patti scellerati. Prima con l’America e poi con la mafia. L’America ha gestito sempre la nostra economia, in nome dell’anticomunismo. Dal dopoguerra in poi abbiamo creduto di essere liberi ma in realtà l’America detta le leggi del nostro mercato. In cambio, per liberarci dal fascismo, ha chiesto e ottenuto una forma di vassallaggio. Ecco perché il sud non riesce a crescere. Dall’unità d’Italia ad oggi siamo tenuti sotto il giogo. Prima dei piemontesi poi degli americani e anche della mafia. Le nuove generazioni pagano lo scotto di questi patti scellerati. Solo che adesso i nostri politici non hanno una visione prospettica, guardano sempre alle prossime vicinissime elezioni».
Per favore lasciamoci con un messaggio positivo.
«È difficile, credimi. Siamo tutti spinti verso la massificazione, verso il pensiero unico che è gestibile. Anche la gente che non legge che non si informa è facilmente gestibile. I social sono un’arma di distrazione di massa potenzialmente pericolosi. Servono a deviare l ‘attenzione ed hanno preso il posto delle ideologie. Non esistono più le ideologie. Un tempo, giuste o sbagliate che fossero, indirizzavano l’individuo. Mi piace essere una voce fuori dal coro. Ho sempre lottato contro il pensiero unico e dominante e non ho paura dello scontro con chi non la pensa come me».
Cosa ti senti di dire allora a chi leggerà questa intervista?
«Ognuno di noi può creare il proprio messaggio positivo. Credo nell’individuo, nella sua capacità individuale di rinascita. La vita può cambiare. Io sono stato capace di farlo».
Sei soddisfatto di quello che hai ottenuto?
«Ho avuto la possibilità di prendermi moltissime soddisfazioni. Sono stato nei grandi teatri con grandi attori che interpretavano i miei testi. Ho delle esperienze che io mi porterò dentro fino all’ultimo giorno di vita. Se devo immaginare il momento in cui lascerò questo mondo, io so che rivedrò il Teatro Massimo pienissimo, col pubblico in piedi mentre applaude mentre io mi godo lo spettacolo dalla parte del palcoscenico. Il ricordo è indimenticabile e lo immagino come un viatico magnifico».
A Claudio Forti brillano gli occhi mentre pronuncia questa frase. Rivede la scena, l’ultima scena, l’icona che è teatro nel teatro e teatrale al tempo stesso. È inevitabile. Lui è un uomo che vive di questo e proprio questo è quello che gli rimane del suo entusiasmo di vivere.

Tiziana Sferruggia

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