(di Achille Sammartano)
Di seguito riportiamo l’intervista fatta a Franco Rodriquez, Sommelier marsalese, delegato dell’Associazione Italiana Sommelier per la Provincia di Trapani nonché degustatore d’eccellenza per prestigiose aziende vinicole come “Cantine Intorcia”. Una piacevole conversazione dalla quale traspare la sua conoscenza e il profondo amore nei confronti del vino e del nostro territorio. D’altronde, come ci ricorda Orazio nel primo libro delle Odi, il vino è soprattutto passione e convivialità, crea legami.
Nel mondo del vino assistiamo all’incremento della produzione biologica, tanto da portare il fruitore medio a concepire un vino biologico come un vino di qualità. Cosa pensa di questa frontiera ormai abbastanza conosciuta e sempre più presente sugli scaffali delle enoteche e sulle nostre tavole?
Va innanzitutto sottolineato che il biologico non è la soluzione a tutti i nostri problemi. Il biologico ci garantisce di non creare ulteriore inquinamento nel nostro territorio ma non ci garantisce nulla circa la qualità del prodotto finale. Nicolas Joly, presidente del comitato internazionale per la biodinamica, disse, quando questa era ancora in fase di proposta, di essere contrario alla legge sul biologico perché sulle bottiglie si sarebbe dovuto scrivere “ vino biologico”, mentre secondo il suo punto di vista sarebbe più corretto, al contrario, obbligare i produttori a scrivere “vino chimico” laddove vi sia l’aggiunta di altre sostanze. Quindi il concetto del biologico deve passare attraverso una valutazione di questo tipo sebbene non sia sufficiente. Una delle pratiche enologiche più diffuse è quella della fermentazione fatta con lieviti selezionati poiché le uve vengono raccolte quando si possono raccogliere e non quando si dovrebbero raccogliere. Molto raramente assistiamo ad una raccolta perfetta. Dopo di ciò vengono trasportate con metodologie non eccellenti e per evitare effetti indesiderati vengono inondate di anidrite solforosa per impedire che partano fermentazioni indesiderate. Il problema è che ad un certo punto è necessario che parta la fermentazione, allora vengono impiegati dei ceppi di lieviti selezionati in giro per il mondo e sperimentati in laboratorio che riescono a fermentare anche in presenza di un tasso elevato di anidride solforosa, tanto da consentire che nel giro di poche ore la fermentazione possa essere completata e si possa passare ad un altro ciclo. Ora, sempre Nicolas Joly, porta questo esempio: il lievito è il seme e il mosto è come l’utero materno, se noi utilizziamo solo lieviti selezionati è come se fossero pochi uomini a fecondare tutte le donne del mondo. Quindi se qualcuno dovesse avere delle anomalie queste verrebbero trasmesse a tutti. In sostanza, un guaio per la biodiversità poiché si arriverebbe al possibile epilogo di avere tutti vini simili l’uno con l’altro. Qui entra in gioco il sommelier, perché abbiamo nel vino tre grandi famiglie di aromi: primari, secondari e terziari . I primari sono correlati al frutto e con la varietà di uva che abbiamo utilizzato, gli aromi secondari sono correlati alla fermentazione e quindi ai lieviti, mentre gli aromi terziari sono quelli correlati all’invecchiamento. Gli aromi primari tendono ad attenuarsi velocemente in tutti i vini, gli aromi terziari, invece, li hanno soltanto quelli che fanno invecchiamento. Quindi quali sono gli aromi più importanti ? Quelli secondari, i quali a loro volta dipendono dai lieviti. Ne deriva che quasi tutti i vini si rassomiglieranno qualora utilizzassimo i lieviti selezionati. Tutto si appiattisce, tutto viene standardizzato, tutto è simile.
Adesso entriamo un po’ nello specifico delle esigenze e delle caratteristiche del nostro territorio. Qual è, secondo lei, il futuro del vino da tavola siciliano?
Il futuro del vino siciliano è legato alla valorizzazione dei vitigni autoctoni. In provincia di Trapani sicuramente è il Grillo. I vitigni autoctoni sono quelli che da noi si sono radicati nel tempo, ad esempio uno Chardonnay non può essere considerato autoctono poiché di chiara origine francese. A tal proposito cito nuovamente Joly quando disse: “avete fatto una cosa terribile a mettere lo Chardonnay in Sicilia ma adesso sarebbe ancora più terribile toglierlo perché le piante stanno iniziando, dopo trent’anni, ad abituarsi alla vostra terra”. In ogni caso appare evidente che il nostro futuro non potrà mai essere legato allo Chardonnay perché lo producono già in Cina e possono produrlo a prezzi sicuramente più bassi. Non è peraltro da escludere che tra non molto tempo assumeranno ottimi enologi che riusciranno a farlo riuscire anche bene. La sfida nel villaggio globale si vince in un solo modo: facendo conoscere chi sei per come sei, coniugando il territorio alle sue risorse. Quello, in buona sostanza, che i francesi chiamano il terroir che va al di là della traduzione letterale “territorio”, significa suolo, territorio, clima e cultura. Giacomo Tachis una volta mi disse: “oggi ci spelliamo le mani ad applaudire i francesi che fanno i Il Beaujolais nouveau, ma la tecnica della macerazione carbonica, che serve per fare i vini con queste caratteristiche, che sono i novelli italiani, ha le sue tracce più antiche in Sicilia, dove i grappoli venivano messi a macerare interi, senza essere pigiati“. Questo dimostra come queste tecniche fossero già in uso presso i nostri antenati e quanto, per andare avanti, basterebbe tornare indietro a riprendere la nostra tradizione. Va detto inoltre che la cosa più ragionevole, specialmente in una parte così calda del mondo, sarebbe quella di fare vini fruibili, se non nel brevissimo termine, sicuramente non oltre il medio termine poiché le nostre uve tendono sempre ad essere pronte prima di quelle di altri paesi ma anche a morire prima. In parole povere noi non dobbiamo fare il verso al Bordeaux che diventa buono dai 15 ai 20 anni di invecchiamento, ma dobbiamo fare vini che siano buoni tra i 5 e i 15 anni; invece troppo spesso abbiamo vini che dopo i 5/6 mesi sanno di cadavere. Mi riferisco specialmente ai rossi visto che i vini bianchi è difficilissimo farli in Sicilia ma chi li sa fare riesce a produrre dei gran bei vini, mentre di grandi rossi siciliani ne possiamo contare veramente pochi. Bisogna iniziare a prepararsi alle grandi sfide e le grandi sfide si fanno con i vini di qualità. In ultima analisi direi di partire dalle nostre risorse, ad esempio puntando a fare il Grillo scegliendo i migliori grappoli. Dopo di ciò per questi vini si potrà scegliere il prezzo che si vuole perché non vi sarà mai nessuno al mondo capace di poterlo riprodurlo o di esprimere il territorio come noi.
Un altro esempio può essere il Perpetuo, vino ossidato come il Marsala ma senza aggiunta di alcool. Questi vini sono i progenitori del Marsala e sono unici perché non potrebbero farli né a Madeira né a Porto. Noi in Sicilia abbiamo la possibilità di fare vini inimitabili ma dobbiamo svenderci di meno e fare le cose più seriamente.
Per ciò che concerne il Marsala, il vino sicuramente più rappresentativo per la nostra Città, che prospettive ci sono? Per molti è un vino dalla grande storia ma sempre più relegato ad un ruolo minoritario all’interno del palcoscenico globale. Concorda con questa tesi o pensa ad una possibile crescita? Se così fosse, come attuarla ?
Per quanto riguarda il Marsala io credo fermamente nel suo ritorno perché è un vino intelligente. Intanto perché ha caratteristiche organolettiche che qualsiasi degustatore sa riconoscere come d’eccellenza, poi perché sono caratteristiche che possiamo raggiungere relativamente con poca spesa rispetto ad altre parti del mondo e infine perché, forse ce ne siamo dimenticati,questo è stato il vino più venduto nel mondo per un periodo di tempo molto lungo a cavallo tra il XIX e il XX secolo. Infatti, quando non era ancora possibile realizzare bottiglie come quelle che adesso sono in commercio, era molto complesso trasportare in modo corretto il vino. I vini francesi ad esempio erano apprezzati né più né meno di quanto lo siano oggi ma con una differenza: che non potevano viaggiare perché appena si provava a metterli in movimento si guastavano per svariati motivi, dai tappi che non tenevano bene alle fermentazioni indesiderate che partivano. Questo comporta che i vini adatti a sostenere un viaggio erano soltanto i vini di alta gradazione alcolica come il Marsala, il Madeira, il Porto e lo Cherry. Il Marsala in particolare, sebbene fu l’ultimo in ordine di tempo ad essere stato scoperto dagli inglesi, fu quello che era possibile ottenere a buon mercato, non perché vi fosse qualche imbroglio ma semplicemente per il fatto che la nostra terra è vocata alla coltivazione di uve da utilizzare per la produzione di questa tipologia di vini. Il nostro errore è stato quello di non riuscire a fare reggere nel tempo l’immagine di lusso che il Marsala rappresentava nel mondo. In ogni caso io credo che il Marsala tornerà ma perché ciò avvenga dobbiamo farci trovare pronti. Il suo possibile ritorno, vada ben inteso, non avverrà per merito nostro ma soltanto poiché vi è sempre nella storia dell’uomo un riproporsi fisiologico delle mode, come è accaduto con i Vermut. Il caso del Vermut è interessante da analizzare visto che,se ci facciamo caso, la richiesta si è orientata sulle ricette più antiche e originali, ciò vuol dire che dobbiamo specializzarci nel fare dei prodotti d’eccellenza. Altra strada da percorrere potrebbe essere quella dell’abbinamento tra Marsala e formaggi importanti visto che anche questi, un po’ come il Marsala, stanno scomparendo dalle tavole. C’è una cosa che mi preme lanciare alla stampa, cioè il fatto che il disciplinare del Marsala non prevede nessun vino che non sia addizionato di alcool ma da sommelier mi chiedo: “perchè no?”. Un vino non addizionato di alcool non solo consentirebbe di inserire il c.d. pre british, cioè il perpetuo del quale abbiamo parlato,ma anche un vino fatto con le altre caratteristiche, ovvero un vino che vada a tavola, un vino bianco importante ma non esagerato. Questa mia impressione si rifà al fatto che per esempio nella DOC dello Cherry c’è un vino, il Fino, dal quale noi poi abbiamo tratto il Marsala Fine, di 15,5 gradi raggiunti mediante l’aggiunta di alcool; noi potremmo inserirne uno a 15 gradi senza aggiunta di alcool. Cosa cambia? Si rifà sempre alla tradizione di questi grandi vini mediterranei.
In conclusione tengo a dire che ancora oggi, sebbene tendiamo sempre a demoralizzarci, il nome Marsala DOC vale molto. E’ vero che non funziona per come dovrebbe ma se cominciamo a pensare in modo diverso davvero possiamo migliorare molto la situazione.