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Rubrica “I nostri diritti” – Autocertificazioni COVID 19 e reati di falso

Durante l’emergenza pandemica che stiamo attraversando, si è registrato un elevato numero di denunce per false attestazioni: 5.684 casi, dall’11 marzo 2020 all’11 marzo 2021, secondo il report delle attività di controllo pubblicato dal Ministero dell’Interno. Un vero e proprio fiume in piena che ha inondato le Procure, che non sembra sia stato arginato dalle pur tempestive indicazioni opportunamente fornite da alcuni Uffici sull’inapplicabilità alle dichiarazioni non veritiere dei reati di falso ideologico commesso dal privato in atto pubblico (art.483 c.p.) e di falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri (art. 495 c.p.). 

Proprio su questo tema sono intervenute interessanti pronunce di due GIP (Giudice Indagini Preliminari), uno presso il Tribunale di Milano (novembre 2020) e l’altro presso il Tribunale di Reggio Emilia (gennaio 2021).

Entrambe le sentenze assolvono gli imputati ma con motivazioni diverse.

Cominciando da quella emessa dal G.i.p. di Milano, con essa il giudice assolve un soggetto cui, in occasione di un controllo, le forze dell’ordine avevano richiesto l’autocertificazione e che aveva reso dichiarazioni rivelatesi poi non veritiere. 

Il giudice afferma che le false dichiarazioni contenute nel modulo di autocertificazione richiesto per giustificare i propri spostamenti, in relazione alle misure di contenimento del contagio da Covid-19, non costituiscono il reato di falsità ideologica del privato in atto pubblico (art. 483 c.p.), come sosteneva la Procura, se sono riferite non già a fatti avvenuti, ma alla semplice attestazione delle proprie intenzioni.

Nel caso in oggetto, l’imputato, fermato dai Carabinieri nel marzo dello scorso anno mentre era alla guida di un autocarro e trovato senza la necessaria autocertificazione, dichiarava che aveva intenzione di andare da un collega per ritirare alcuni pezzi di ricambio per caldaia, che gli sarebbero serviti per un successivo lavoro, ma la polizia giudiziaria accertava la falsità di tali affermazioni.

Il G.i.p. assolve l’imputato perché ritiene che le sue dichiarazioni non possano rientrare nell’ambito di applicazione del reato di falso ideologico del privato in atto pubblico, soprattutto perché la norma che lo disciplina fa riferimento alla nozione di “fatto”, punendo la falsa attestazione al pubblico ufficiale di «fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità». Secondo il giudice, quindi, le dichiarazioni che consistono in «mere manifestazioni di volontà, intenzioni o propositi», in quanto non relative a “fatti” di cui può essere provata la verità, non possono rientrare nell’ambito applicativo dell’art. 483 c.p. Soltanto nel caso in cui le false dichiarazioni contenute nel modulo di autodichiarazione siano riferite ad un fatto già avvenuto, si potrebbe avere il reato di falso di cui all’art.483 c.p.

Così esclusa la rilevanza penale ex art. 483 c.p. della manifestazione d’intenti non veritiera contenuta nel modulo di autodichiarazione, il G.i.p. specifica come nel caso in questione, anche se l’imputato avesse riferito in ordine a fatti già accaduti, sarebbe stata comunque da escludere la rilevanza penale della sua condotta, in quanto le dichiarazioni oggetto di contestazione risultavano incorporate in un’annotazione di polizia giudiziaria, documento che può assumere rilevanza di prova  solo in relazione al fatto che le stesse dichiarazioni siano state rese, e non già rispetto alla veridicità del loro contenuto.

Infine, la sentenza esclude la rilevanza penale della condotta dell’imputato anche con riferimento all’ipotesi di falsa dichiarazione a pubblico ufficiale di cui all’art. 495 c.p., dato che le dichiarazioni rese non rientrano fra quelle relative a identità, stato o qualità della persona richiamate da tale norma.

Ne deriva che, secondo il G.i.p., la condotta dell’imputato non è punibile come reato in materia di falso, ma può eventualmente essere sanzionata solo sul piano amministrativo (quindi con multe), in quanto viola le misure di contenimento del contagio.

Ora, la conclusione raggiunta dal G.i.p. di Milano sembra assolutamente condivisibile, ma, forse, andrebbe meglio analizzato il criterio in base al quale si distinguono le dichiarazioni che possono o meno integrare un reato di falso.

Nel caso delle autodichiarazioni giustificative degli spostamenti, infatti, il contenuto della dichiarazione del privato (non strutturalmente, ma) solo occasionalmente si potrebbe qualificare come manifestazione di volontà, dipendendo evidentemente tale caratteristica da fattori a lui esterni, in particolare, dal momento – o, meglio, dall’occasione- del controllo e della verifica circa il contenuto delle dichiarazioni stesse.

La stessa sentenza ammette, in questa prospettiva, la doppia natura delle autodichiarazioni: se affermo di essermi appena recato in ospedale, o al supermercato, dichiaro un fatto, con tutte le potenziali conseguenze sul piano penale della mia condotta; ma se devo ancora raggiungere quelle destinazioni e vengo sottoposto a controllo, la manifestazione della mia intenzione di andare in ospedale o a fare la spesa, in quanto riferita solo ad intenzioni e non a fatti, non è rilevante penalmente in base all’art. 483 c.p.

Del resto, per come sono strutturati i modelli di autodichiarazione proposti dall’autorità governativa (nei quali il privato dichiara che «lo spostamento è determinato da» uno dei motivi contemplati, indicando peraltro sin dall’inizio località di partenza e di destinazione), l’oggetto della dichiarazione è comunque e sempre un fatto, e cioè la sussistenza obiettiva di una delle ragioni che, ai sensi della normativa vigente, consentono lo spostamento.

Probabilmente, quindi, occorrerebbe interrogarsi sull’esistenza di ragioni ulteriori rispetto al semplice profilo dell’essere la dichiarazione riferita ad una mera manifestazione di volontà, che consentano di escludere la configurabilità, per il caso che ci occupa e per tutti quelli analoghi, delle fattispecie di falso.

In questo senso, ci si potrebbe innanzitutto interrogare sull’effettiva riconducibilità delle autodichiarazioni giustificative degli spostamenti alla categoria delle dichiarazioni sostitutive di certificazioni o di atto di notorietà di cui agli artt. 46 e 47 d.P.R. n. 445/2000: tale riconducibilità pare in radice esclusa dal fatto che tali documenti non si inseriscono in un «rapporto con la pubblica amministrazione» (art. 47), caratterizzato principalmente dalla presentazione di una «istanza» (art. 46) da parte del privato finalizzata ad ottenere un determinato risultato. Se dunque non può essere qualificato ai sensi delle citate norme di cui al d.P.R. n. 445 del 2000, il modulo “autodichiarativo” compilato dal privato non può che rimanere una mera scrittura privata, funzionale a fornire un supporto materiale e cartaceo a quanto dichiarato al pubblico ufficiale incaricato del controllo circa le ragioni dello spostamento. E’, dunque, impossibile che un’eventuale bugia incorporata in tali documenti integri un’ipotesi di falso rilevante ai sensi dell’art. 483 c.p.

In conclusione, la pronuncia assolutoria del G.i.p. di Milano offre lo spunto per ribadire come, nell’attuale contesto di limitazione delle libertà per esigenze di tutela della salute pubblica e di contenimento del contagio, l’arma dei delitti di falso non sia, di fatto, applicabile.

Passando all’esame della pronuncia, più recente, del G.i.p. presso il Tribunale di Reggio Emilia, anch’essa assolve due soggetti imputati del delitto di falso ideologico commesso da privato in atto pubblico in relazione alle false dichiarazioni riportate nell’autocertificazione richiesta al fine di giustificare i propri spostamenti durante il primo lockdown dello scorso anno. 

Le motivazioni adottate dal giudice, però, sono diverse e riguardano la ritenuta illegittimità del ricorso allo strumento del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri al fine di introdurre limitazioni alla possibilità di spostamento nell’ottica di contenimento del contagio.

I fatti risalgono al 13 marzo 2020: fermati dai Carabinieri, i due imputati compilavano l’autocertificazione richiesta dichiarando l’una di essere andata a sottoporsi ad esami clinici, l’altro di averla accompagnata, circostanze che poi, da un successivo controllo sugli accessi presso l’Ospedale locale, si dimostravano non veritiere.

Il giudice si concentra sulla “indiscutibile illegittimità” tanto dei DPCM 8 marzo 2020 e 9 marzo 2020, quanto di “tutti quelli successivamente emanati dal Capo del Governo”, nella misura in cui questi provvedimenti hanno stabilito un divieto di spostamento delle persone fisiche salvo che per “comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero spostamenti per motivi di salute”; in particolare, secondo il giudice, i citati DPCM hanno stabilito “un divieto generale e assoluto di spostamento al di fuori della propria abitazione, con limitate e specifiche eccezioni”, che si traduce nell’introduzione di un vero e proprio “obbligo di permanenza domiciliare” in capo al cittadino. Tale obbligo costituisce una misura restrittiva della libertà personale, che, pertanto, dovrebbe essere assistita dalle garanzie di cui all’art. 13 Cost., ossia doppia riserva di legge e di giurisdizione. 

Proprio sotto questo punto di vista, secondo il G.i.p., è illegittimo ricorrere al DPCM per introdurre le misure restrittive in oggetto: infatti, da un lato, questo strumento “non può disporre alcuna limitazione della libertà personale, trattandosi di fonte meramente regolamentare di rango secondario e non già di un atto normativo avente forza di legge”; dall’altro, esso risulta comunque per sé solo insufficiente allo scopo, in quanto l’art. 13 Cost. “implic[a] necessariamente un provvedimento individuale, diretto dunque nei confronti di uno specifico soggetto” ed emesso dall’Autorità giudiziaria.

Per questi motivi, il giudice, vista la natura di atti amministrativi dei DPCM, ritiene di dover procedere alla loro disapplicazione e, di conseguenza, ritiene penalmente irrilevante il caso sottoposto al suo esame: se è stato proprio il DPCM dell’8 marzo 2020 ad aver “costretto” gli imputati “a sottoscrivere una autocertificazione incompatibile con lo stato di diritto del nostro Paese e dunque illegittima”, la disapplicazione di tale provvedimento normativo fa sì che “la condotta di falso .. non sia tuttavia punibile”, venendosi piuttosto ad integrare un’ipotesi di “falso inutile” o “innocuo”.

Proviamo ad analizzare più da vicino le motivazioni della sentenza. Essa si concentra in particolare sul contenuto dell’articolo 1 del DPCM 8 marzo 2020, che impone di “evitare ogni spostamento delle persone fisiche in entrata e in uscita dai territori di cui al presente articolo, nonché all’interno dei medesimi territori, salvo che per gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero spostamenti per motivi di salute”. Secondo il G.i.p., tale misura avrebbe imposto un vero e proprio “obbligo di permanenza domiciliare”, che, incidendo direttamente sulla libertà personale dei singoli cittadini, poteva essere introdotto legittimamente soltanto assicurando le garanzie della riserva di legge e di giurisdizione di cui all’art. 13 Cost., che, però, lo strumento del DPCM non è in grado di assicurare.

Gli argomenti del G.i.p., in definitiva, coinvolgono direttamente il piano del sistema delle fonti del diritto della pandemia, e in particolare il problema dell’individuazione di quegli strumenti regolatori che, in una situazione di emergenza quale quella attuale, possono introdurre limiti alle libertà costituzionalmente garantite per esigenze di tutela della salute e della sicurezza pubblica. 

Si tratta di un tema sensibile e rilevantissimo, rispetto al quale è possibile fare alcune osservazioni.

In primo luogo, rileva la qualificazione della misura limitativa degli spostamenti di cui al citato art. 1 del DPCM 8 marzo 2020 come implicante un vero e proprio “obbligo di permanenza domiciliare”, e dunque come restrittiva della libertà personale. 

Ebbene, con riferimento al divieto di spostamento delle persone fisiche al di fuori delle ormai note esigenze di lavoro, salute o necessità, sembra che a venire in gioco sia non tanto la libertà personale di cui all’art. 13 Cost., quanto piuttosto la libertà di circolazione tutelata all’art. 16 della Carta costituzionale, in relazione alla quale è espressamente prevista la possibilità che la legge stabilisca “in via generale” limitazioni per motivi di sanità o di sicurezza.

In questo senso, pur nella consapevolezza dei complessi rapporti fra le libertà di cui agli artt. 13 e 16 Cost., sembra che una limitazione della libertà personale, tale da configurare un “obbligo di permanenza domiciliare”, si possa manifestare solo con riferimento ad altre e diverse misure anti-contagio, caratterizzate da una effettiva coercizione fisica con modalità analoghe agli strumenti detentivi, ad esempio nel caso della misura della quarantena con divieto assoluto di allontanamento dalla propria abitazione imposta nel caso di soggetti positivi al Covid-19; nel caso, invece, delle limitazioni agli spostamenti, il singolo mantiene evidentemente la possibilità di uscire dalla propria abitazione, naturalmente nei limiti (costituzionalmente ammissibili) in cui ricorrano le richiamate esigenze di lavoro, salute e necessità.

Pur riconducendo le misure anti-contagio limitative degli spostamenti all’art. 16 Cost., rimane comunque ferma l’esigenza di individuare una base legale per le restrizioni alla libertà di circolazione così introdotte, che alla luce del richiamato canone costituzionale debbono appunto essere previste dalla legge “in via generale”.

Con riferimento a questo profilo il G.i.p. evidenzia come “un DPCM non può disporre alcuna limitazione della libertà personale, trattandosi di fonte meramente regolamentare di rango secondario e non già di un atto normativo avente forza di legge”. In questo modo, però, il Giudice mostra di non prendere in considerazione la fonte che a sua volta ha demandato ai DPCM l’introduzione delle misure di contenimento del contagio, e cioè – almeno con riferimento al periodo iniziale dell’emergenza nel quale si colloca la vicenda in oggetto – il d.l. n. 6 del 23 febbraio 2020.

Ora, se a livello formale il rinvio della fonte legislativa a quella secondaria quale strumento per l’introduzione delle misure anti-contagio consentiva almeno di individuare una forma di “previsione per legge” in conformità alla riserva relativa di cui all’art. 16 Cost., a livello sostanziale restava problematico il fatto che le incisive misure restrittive degli spostamenti individuali introdotte dai DPCM di inizio marzo 2020 non fossero originariamente contemplate nel d.l. n. 6 del 2020, essendo piuttosto riconducibili alla clausola “in bianco” di cui all’art. 2, che si riferiva genericamente alla possibilità di prevedere “ulteriori misure di contenimento e gestione dell’emergenza”.

In ogni caso, l’evoluzione della legislazione emergenziale ha poi riportato la disciplina delle misure anti-contagio entro un quadro più aderente alle garanzie costituzionali, almeno con riferimento alla base legale delle limitazioni imposte alla libertà di circolazione: il d.l. n. 6 del 2020 è stato infatti abrogato dal successivo d.l. 25 marzo 2020, n. 19, il quale ha tra l’altro provveduto a tipizzare ed estendere a tutto il territorio nazionale le diverse misure limitative.

In conclusione, sebbene la decisione di prosciogliere gli imputati alla quale giunge il Giudice emiliano sembri in sé assolutamente condivisibile, problematico appare il percorso argomentativo intrapreso per arrivare a tale risultato, soprattutto nella misura in cui si fonda su una radicale delegittimazione delle misure di contenimento introdotte con lo strumento dei DPCM particolarmente pericolosa nel momento attuale, in cui la comunità dei cittadini è chiamata a rispondere con responsabilità alle limitazioni di libertà richieste nell’ottica di contenere il contagio.

Sembra, quindi, importante evidenziare come alla stessa soluzione processuale il Giudice sarebbe potuto arrivare attraverso una riflessione incentrata sulla struttura dell’ipotesi delittuosa di falso richiamata nell’imputazione, in particolare chiedendosi se l’autodichiarazione sottoscritta dagli imputati sia effettivamente riconducibile alla categoria delle dichiarazioni sostitutive di certificazioni o di atto di notorietà, in relazione alla quale può configurarsi il reato di falso ideologico di privato in atto pubblico.

Come già evidenziato a proposito della  pronuncia del G.i.p. di Milano, sembra infatti che il modulo autodichiarativo compilato dal privato per giustificare i propri spostamenti, nella misura in cui non si inserisce in una relazione fra cittadino e pubblica Amministrazione caratterizzata dalla presentazione di un’istanza del primo volta ad ottenere un atto della seconda, non possa che rimanere una mera scrittura privata, funzionale a fornire un supporto materiale a quanto dichiarato al pubblico ufficiale, la cui eventuale falsità dunque non integra l’ipotesi di cui all’art. 483 c.p.

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